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  • CARLO SAFFIOTI

VIAGGIO IN CORSICA


Ho deciso all’improvviso di rivedere la Corsica. Non ci sono più tornato da moltissimi anni: le ultime volte, ormai tanti anni fa, avevo i bambini ancora piccoli, mi muovevo con la roulotte e la mia passione era la pesca subacquea. Anche.

Levataccia per arrivare in tempo all’imbarco a Livorno e traversata regolarmente noiosa. Nonostante la stagione sia appena iniziata i turisti tedeschi sono ovunque. Sbarco a Bastia e decido – con dispiacere, ma il tempo è davvero poco, di non fare la strada della “Scala della Regina” - che attraversa dall’interno l’isola arrivando a Porto – decidendo di proseguire verso capo Corso, il “dito” della Corsica puntato come un’accusa verso la Francia.

L'ambiente è caratterizzato dal granito, roccia che luccica ovunque di verde e di grigio. Proseguo contornando tutto il Capo, pieno di calette e paesini che ormai sono diventati troppo pittoreschi e turistici. Anche le strade, adesso, sono molto migliori di quando sono venuto le prime volte, le trovo più eleganti e sopratutto allargate. Imparo a fare molta attenzione ai limiti di velocità, perché – specie nelle zone “30” - ci sono molti “ralentisseur” disseminati a pochi metri di distanza l’uno dall’altro e capaci senz’altro di far saltare le sospensioni di una jeep!

Non ho voglia di arrivare a vedere la Giraglia, per cui mi limito a seguire la strada che, dopo Macinaggio, taglia la punta del capo e l’attraversa per arrivare sull’altro lato.

Scendo rapidamente la costa che - sull’altro versante dell’isola – mi sembra più alta e selvaggia, come piace a me, in un diluvio di spiaggette, cale e porticcioli che fortunatamente sono ancora quasi deserti.

Giravoltando in continuazione, arrivo a Nonza. Il paesino è splendido e severo, posto lassù in alto sopra uno sperone di roccia. In basso si stende la sua lunghissima spiaggia nera che ricordavo bene. Ormai sono davvero affamato, ma non sono riuscito a trovare nessuna “paillote” dove mangiare qualcosa e non voglio abbioccarmi in un ristorante. Perciò decido di fermarmi in un negozio di alimentari e faccio acquisti per organizzarmi uno spuntino.

La negoziante afferma di aver finito il pane ma poi, di fronte alla mia desolazione, mette le mani nella borsa e mi offre il suo: avendo comprato anche una forma di Camenbert sarò adeguatamente profumato per tutto il viaggio. In compenso ho acquistato anche dei “canestrelli” che potrò offrire ai miei compagni di corso da Sacha.

Continuo la strada in direzione di Saint Florent, dove ho il triste ricordo del sequestro di un fucile subacqueo: mi avevano trovato a pescare in una riserva che era indicata soltanto sulle carte nautiche; ma io avevo una barchetta di quattro metri, figurarsi se disponevo di carte nautiche. Furono irremovibili: probabilmente avevano solo voglia di tenersi il mio fucile oleopneumatico, allora introvabile in Francia.

Mentre mi accingo ad attraversare il Desert des Agriates ma sbaglio strada: in Corsica le segnalazioni non sono molto accurate, almeno in questa zona. Devo tornare indietro di parecchi chilometri e poi finalmente attraverso questa parte dell’isola verdissima e praticamente disabitata; continuo sulla strada che mi porterà fino a Calvi e poi a Porto, stretta, piena di curve e roccioni che sovrastano il passaggio. Stupenda.

Scopro che la carreggiata, finalmente, è stata ampliata ma continua a essere opportuno, specie sulle curve cieche, usare spesso il clacson. Pareti con enormi massi di granito che strapiombano colorando di arancio l'ambiente, antri scurissimi dove fenomeni di erosione hanno scavato la roccia, calette meravigliose, fiordi assurdamente celesti che penetrano nel maquis fiorito. Viaggiare nel mese di maggio è un regalo meraviglioso: ovunque si vedono i fiori a centinaia, a migliaia, che formano cuscini e colorano il verde squillante della nuova vegetazione.

Il colore dominante intorno a me, adesso, è completamente cambiato: dal grigio e verde luccicanti dell’altro lato del Capo, oramai, sono arrivato ad una zona dove regna il rossastro spento; è quasi un arancio che contrasta con il bellissimo verde tenero delle nuove foglie primaverili, punteggiate ovunque di bianco e di rosa dai fiori del cisto e macchiate dalle orgogliose masse gialle delle alte piante dei finocchi che si sporgono sul mare.

Comincio ad essere stanco, stamani mi sono alzato alla quattro e mezzo; ormai è sera e vedo un piccolo albergo, nuovissimo, a tre stelle. L’hotel Davia mi offre una bellissima camera con vista mare e terrazzo erboso. La portiera, gentilissima, mi indirizza per la cena ad un ristorante che si trova proprio alle spalle dell’albergo.

Ė perfetto perché sono davvero stanco e non ho voglia di camminare, ma la cena non è per niente memorabile, anche se vengo accolto come un principe da una bella creola che mi offre subito un cocktail di benvenuto: il poulet alla creola in realtà è bruciacchiato e mal cotto, inoltre c’è troppo peperoncino verde. Un buon calvados, in chiusura, mi concilia il sonno.

Al mattino, ricca colazione e poi via di nuovo in strada: superata l’Isola Rossa raggiungo Calvi ma non ho voglia di fermarmi, ormai è la zona di Porto che mi attira con il ricordo delle mie vacanze lontane.

I promontori, le punte, le calette si susseguono e io sono obbligato continuamente a fermarmi, ovunque trovi un minimo spazio per posteggiare, per fare fotografie; fortunatamente i turisti sono ancora pochissimi se non inesistenti e le piazzole di sosta spesso restano libere.

Finalmente arrivo alla profonda insenatura del golfo di Porto, con la grande spiaggia di sabbia scura orlata dalle scogliere e io mi tuffo nei ricordi, moltiplicando le foto.

Arrivo al colle della Palmarella con il doppio golfo e dopo decine di tornanti trovo i Calanchi di Piana, che ricordavo bene: impressionanti grattacieli di granito, vere e proprie cattedrali rosse, aspre di guglie e irte di pinnacoli: purtroppo c’è qualche turista, tedeschi soprattutto, già in pantaloncini corti e maglietta.

Proseguo a scendere lungo la costa e, sentendo gli stimoli dell’appetito, trovo un piacevole ristorantino ombreggiato dove mi concedo una omelette al “brocciu”, il formaggio fresco specialità corsa, annaffiata da ben due “demi panachè”, una birra corretta da un po’ di limonata: una bevanda pochissimo alcoolica e molto dissetante. Mentre aspetto mi dedico al mio taccuino: le vecchie abitudini non si dimenticano.

Dopo la sosta alimentare riprendo la strada: una sequela di cale e calette ed ecco arrivare Cargese, con la sua enorme spiaggia d’ordinanza: la costa ormai comincia ad abbassarsi: si trovano zone con posti più comodi e rilassanti, adatti alle famiglie.

A me piacciono meno: sono perfette solo per chi passa molte ore a prendere il sole.

Scendo ancora verso sud: la strada ora corre per parecchi chilometri all'interno mostrando una Corsica verde e pochissimo popolata: del resto quest’isola non è mai stata molto popolata e, anche attualmente, ho letto sulla guida che non raggiunge i trecentomila residenti: una bella differenza con il milione e seicentomila sardi dell’isola accanto!

Decido di non entrare ad Ajaccio, pensando che il traffico e la confusione non valgono il tempo che mi costerebbe visitarla: meglio andare avanti godendomi il paesaggio che cambia continuamente seguendo la strada che si srotola tra le masse del granito.

Mi sorprendo a riflettere sui cimiteri che incontro spesso, inaspettati. Sono grandi, senza muri di cinta, aperti allo sguardo di tutti, pieni più che altro di cappelle per famiglie, rigorosamente chiuse, come fossero delle piccole abitazioni. Mi sembrano riflettere esattamente il carattere chiuso, profondamente isolano, dei Corsi.

Ho deciso che non mi fermerò a dormire prima di essere arrivato a Bonifacio però, qualche chilometro prima di entrare in quella città, una serie di cartelli che annunciano alberghi sul mare mi induce a fare una deviazione. Trovo il mio hotel per questa sera: si chiama “U Libecciu”, a dimostrazione di quanto la Corsica e il suo linguaggio siano vicini alla Sardegna. E’ un bell’albergo moderno, rossiccio, ben attrezzato, con piscina e tutto. C’è anche il ristorante e così non sono costretto a uscire: ottima cosa perché sono piuttosto stanco. Ceno gustandomi tra l’altro una bella insalata con dei formaggi corsi e un piatto di carne non meglio identificata. Il vino è davvero buono, come anche il liquorino digestivo.

Lo sguardo è rallegrato da una cameriera bruna che scodinzola fra i tavoli: ha un bellissimo lato B, in perfetto pendant con un bel davanzale, ritto a gonfiarle la camicetta. Lasciamo perdere le distrazioni: un po’ di lavoro al taccuino e poi vado a letto.

La mattina mi sveglio con la voglia di vedere le scogliere di Bonifacio. Purtroppo il cielo è nuvoloso e minaccia pioggia.

Non sono mai stato nella zona sud dell’isola e sono curioso. I muri a secco, in pietra che ho trovato da queste parti sono di una bellezza e di una perfezione assolute, tali da far sfigurare e non poco i muretti dei quali siamo tanto fieri in Toscana; ne ho visti alti anche più di 2 metri; sono costruiti con piccole lastre, sottili come piastrelle, di pietra grigio chiara, il granito locale: è incredibile come la mano di un uomo riesca a commetterle con una precisione quasi perfetta. Praticamente non ci sono spazi vuoti tra una scaglia e l’altra e la superficie verticale è del tutto piana. Sono impressionato.

Ecco la città di Bonifacio. È costruita in cima a quelle falesie altissime, biancastre, che tutti abbiamo visto in fotografia; quando ci cammino sopra la sensazione è quella di camminare sopra le nuvole. Il porto è nascosto in fondo a un fiordo molto profondo e ben protetto. È necessaria questa protezione: il vento in questa zona può essere fortissimo e oggi mi rende quasi impossibile aprire la portiera dell'auto. Eppure non sono poche le barche a vela, anche di sei o sette metri, che si avventurano in mare, ad affrontare le famose “Bocche”. Lascio la macchina in un angolo un po’ a rischio per cercare di fare qualche foto, mi allontano duecento metri e mi arriva addosso uno scroscio violento che mi infradicia completamente: già ero un po’ raffreddato, ora sono a posto!

Torno in macchina e smette di piovere. Cocciuto come un mulo continuo a cercare e trovo un parcheggio a pagamento proprio sopra le falesie e le mura difensive della città. Il cielo ora si è sgombrato: macchina fotografica in resta, riparto a fare foto.

Decido di avventurarmi anche a visitare il “Gouvernail”, cioè il “timone”, così chiamato per la forma di una roccia che si trova alla base della falesia, alla bocca del porto.

Si tratta di una galleria, scavata completamente a mano nell’800, che dall'alto della costa penetra nel terreno con una pendenza ripidissima fino ad arrivare a pochi metri sopra il livello del mare. Il percorso è tutto una scalinata, e gli scalini - che sono oltre 160, cioè circa 350 fra discesa e salita – quasi mi uccidono: la mia testardaggine ha la meglio. Il tutto serviva all’epoca per avere una postazione di cannoni a difesa del porto. Scatto un paio di foto che, pensando alla fatica che ho fatto, sono davvero insignificanti.

Dopo aver girellato sopra le falesie di Bonifacio, abbandono questa città così particolare, chiusa nei suoi fiordi e quasi militarizzata dalle grandi fortificazioni e proseguo il mio viaggio verso la zona di Porto Vecchio. Ė molto bella dal punto di vista del paesaggio, ma poco interessante secondo i miei gusti: preferisco gli ambienti più bruschi, aspri, selvaggi. Ė un’abitudine di quando facevo pesca subacquea.

Ricordavo bene che questo lato della Corsica, come del resto avviene anche in Sardegna, è meno interessante e d’altra parte domattina dovrò avviarmi al ritorno. Comunque faccio un lungo giro trovando innumerevoli porticcioli, calette, campeggi e attrezzature balneari che farebbero la felicità di molti vacanzieri.

Per una volta decido di sfruttare di più l’albergo, in modo da poter fare un riposino. È ora di pranzo e ne scelgo uno con piscina, sul lungo mare di Porto Vecchio, si chiama Costa Salina: su mia richiesta mi indirizzano ad un vicino ristorante dove gusto un’ottima cucina francese e un vino rosso corso degno di nota; poi mi concedo il previsto riposino e riparto in giro a fare fotografie. La sera decido di cenare al Tropicana: mi intriga l’ambiente caraibico ma francamente il cibo non è granchè: avrebbero la pretesa di farmi mangiare tagliolini alla carbonara accompagnati da un mojito. Declino l’offerta inorridito e mangio quello che loro chiamano “saltimbocca” e che in realtà è un rotolino di petto di pollo con prosciutto e salse varie.

Al mattino, ormai, devo ripartire: risalgo lungo la strada e sorrido notando un alberghetto che si chiama “La figha”, seguito poco dopo dal fiume Favone: ne faccio partecipi gli amici del gruppo BiroHazard ma purtroppo non ho avuto modo di portare una prova fotografica.

L'arrivo a Bastia non è molto ben segnalato e la fila al porto, sotto il sole è notevole.

Rientro al Puntone: la vacanza è finita.

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