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  • GORDIANO LUPI

MIRACOLO A PIOMBINO Storia di Marco e di un gabbiano


Capitolo uno

Marco aveva iniziato a raccontare la sua vita ai gabbiani del porticciolo di Marina. Quei gabbiani così bianchi e liberi nelle giornate interminabili d’estate, quei gabbiani così lesti ad abbandonare la soglia del giorno nelle fredde serate d’inverno e così veloci ad accogliere il sole. Troppo diversi dai gabbiani proletari del porto, anneriti dai fumi, dai residui ferrosi dell’acciaieria, dallo spolverino di carbone che volava libero nell’aria del mattino. Marco era diventato uno di loro, sapeva distinguere ogni grido stridulo che usciva da quei becchi disperati in cerca di cibo. La discarica di Poggio ai Venti era la mensa imbandita nei giorni di magra, quando il mare era avaro con i suoi figli e i gabbiani finivano per azzuffarsi con tenacia sul rifiuto migliore. Le onde del mare nei pressi del piccolo porto del suo recente passato erano la tavola quotidiana dove cercare cibo lanciato dai pescatori, raccolto da mendicante dei mari, catturato con la furia e la rabbia di un uccello rapace.

Marco aveva cominciato a sentirsi uno di loro, sullo specchio di mare davanti all’Isola d’Elba, dal balcone naturale di via del Popolo, dalle panchine di piazza Bovio protese davanti alle isole, sconvolte dai venti. Parlava spesso con quei bianchi uccelli che popolano le scogliere e i tetti delle case di mare. Potevano capirlo? Non lo sapeva. I loro sguardi erano trasognati e stanchi, ma lui parlava senza sosta, ascoltando grida d’amore e disperati richiami d’appetito. Lui riusciva a comprenderli. Erano i soli amici veri d’una fanciullezza che stava lasciando il posto alla pubertà, con la prima peluria sul volto, le voglie pavide davanti alle ragazzine, le letture proibite, un mondo di sogni e fumetti che svaniva - dissolvenza irreale della memoria - di fronte a una vita adulta tutta da edificare. I vecchi albi di Topolino lasciavano il posto a fumetti erotici, un padre severo ricordava doveri, strade tracciate dal tempo, tutto cambiava, sembrava impossibile, pareva un sogno imperscrutabile il suo rimpianto. E la vita si perdeva nel silenzio di notti disperate d’una camera troppo piccola per contenere dubbi e incertezze. Le parole di Paul Nizan percuotevano i suoi pensieri, uno scrittore mai letto, pure se sapeva a mente la colonna sonora di Avere vent’anni. “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che quella è la più bella età della vita”. Marco non aveva ancora vent’anni. Non avrebbe permesso a nessuno di dire che stava vivendo un’età spensierata. Che ne sapevano del suo mondo? Segreti inconfessabili, paure vissute in silenzio, condanne decretate da tribunali immaginari, dolori confidati a un gabbiano dalla balaustra in ferro battuto d’un piccolo porto, tra teste di molossi dalle quali sgorgava acqua da tempi immemorabili. Ricordi di bambino, vissuti tenendo per mano un nonno cantastorie. Ricordi che non potevano tornare ma erano ancora con lui. Sapeva che doveva stringerli forte per non farli fuggire lontano.


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